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O la cassa o la casa

Giugno 2021 - A cura del Dott. Angelo Giuseppe Maria Converso - Corte d'Appello di Torino

 

Questa è l'alternativa del diavolo che si pone ai comuni di fronte al fenomeno acusticamente devastante della c.d. movida. Dove la cassa è quella comunale, ma la casa quella degli sciagurati residenti. È inutile dire che la scelta inclina, per la cronica penuria finanziaria, verso la prima a danno della seconda. Questo emerge con chiarezza dalla sentenza torinese dello scorso 15 marzo 2021 n. 1261, la quale ha sicuramente un pregio: quello di aver messo al centro della decisione la responsabilità del Comune per i danni da disturbo acustico. Su tale aspetto occorre, però, qualche considerazione.

Il disturbo da inquinamento acustico è riconducibile – sul lato dei disturbati – a due discipline giuridiche solo in parte sovrapponibili: quella generale, nel senso che è applicabile quale che ne sia la causa, della c.d. responsabilità aquiliana o della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. e quella specifica relativa all’immissione intollerabile di cui all’art. 844 c.c..

Le due discipline coincidono in parte, nel senso che entrambe, tutelando prioritariamente l’integrità psicofisica dell’individuo – il c.d. diritto alla salute di rango costituzionale, di cui all’art. 32 Cost. – comportano per il disturbatore un obbligo di risarcimento del danno, ma, in aggiunta, l’art. 844 c.c. applicato contro il disturbatore ed a tutela di un proprietario consente al giudice d’ufficio di disporre mezzi di prevenzione dell’immissione intollerabile futura.

Le due norme divergono, invece, sul piano dei presupposti: mentre la generale azione di danno extracontrattuale ex art. 2043 c.c. si applica in presenza di un qualsiasi danno causato colposamente, l’azione di cui all’art. 844 c.c. essendo anche azione reale, cioè a tutela della proprietà, prescinde dalla colpa del disturbatore considerando come rilevante solo l’effetto prodotto sul disturbato. Già questa distinzione dimostra come la condanna ex art. 844 c.c. sia ben più incisiva di quella generica valida per tutti i casi, dall’incidente stradale all’omicidio, generatrice solo di un risarcimento del danno in via pecuniaria.

Delineata molto sommariamente ed a grandi linee la distinzione fra i due tipi di tutela, si deve osservare che la sentenza torinese riconosce ai disturbati solo la tutela generale di cui all’art. 2043 c.c. negando quella specifica ex art. 844 c.c.. Questo profilo è cruciale perché è pienamente condivisibile per un aspetto ma fortemente criticabile per un altro. Il giudice, sulla base dei fatti accertati, ha ritenuto che la tolleranza da parte del Comune della prolungata violazione dei limiti massimi accettabili di cui alle tabelle A-B allegate al D.P.C.M. 14/11/1997, protratta per anni (quattro nel caso concreto), senza l’adozione di effettive ed efficaci misure di contrasto per ridurla ai limiti normativi, integrasse proprio la colpa da parte dell’ente pubblico, cioè la violazione di leggi e regolamenti, nella causazione dei danni ai residenti, proprietari o meno che fossero.

Sinteticamente e con chiarezza: il mancato rispetto, nel senso dell’imposizione di esso ai fruitori del suolo pubblico, di quei limiti da parte del Comune configura il fatto generatore del danno, il cui nesso di causalità con il danno lamentato è oggetto di accertamento giudiziale. Quindi, la mancata od addirittura omessa, come nel caso specifico, imposizione effettiva dei limiti massimi accettabili integra la colpa in capo all’ente pubblico, dalla quale, provato che si sia il nesso di causalità, deriva il risarcimento del danno.

Una prima conclusione, quindi, si può già trarre: ogni volta che un Comune, che ha l’obbligo giuridico di impedire il superamento di quei limiti massimi accettabili, non vi provveda d’ufficio, ed a maggior ragione se sollecitato dai residenti, per ciò stesso è in colpa ed è tenuto a risarcire il danno patito dai residenti. Quando, ovviamente, sia dimostrato il nesso di causalità fra colpa ed evento pregiudizievole.

Nel caso commentato lo scostamento fra il limite massimo e quello concretamente e ripetutamente accertato durante i vari interventi dell’ARPA era a dir poco mostruoso, essendo pari a circa +20 dB(A), sicché l’immissione superava di gran lunga i 70 dB(A) all’interno delle unità immobiliari. Rumore la cui continuità impedisce qualsiasi vita normale. Quindi, il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale, parametrato ai livelli massimi accettabili, è relativamente comprensibile, semplice ed intuitivo, non diversamente da quello da incidente stradale o simili. E tal responsabilità è stata accertata nei confronti del Comune di Torino, condannato al risarcimento del danno per una somma complessiva di circa 1.218.000 Euro.

Difficoltà sorgono, invece, in relazione all’art. 844 c.c., tutela erroneamente negata dal giudice torinese. Indubbiamente il giudice italiano, in via generale, rifugge dalla responsabilità istituzionale di porre egli stesso la norma di tutela, per una atavica formazione positivistica, secondo il dogma per cui il giudice applica la legge, se la legge non dichiara espressamente quale sia la tutela applicabile, allora è meglio non applicare nulla. Formazione superata sul piano dottrinale e su quello normativo, dove abbondano ormai norme a contenuto aperto o clausole generali che spetta ad giudice di “riempire” caso per caso (ad es. la buonafede; le regole dell’arte; la giusta causa; il giustificato motivo, etc.), ma mentalità assai dura a scomparire per il timore del giudice di affrontare una materia in cui non esiste una dizione normativa esplicita, e la legge attribuisce a lui stesso di porre la norma da applicare nel caso. Ciò è proprio quanto accade con l’art. 844 c.c. che null’altro è se non la traduzione del paragrafo 906 (dell’anno 1900) del codice civile tedesco (BGB). La norma non dice in che cosa consista l’intollerabilità dell’immissione – nel caso – rumorosa, né quale sia la soglia oltre la quale tale intollerabilità sussista: spetta al giudice stabilirla tenuto conto dell’esigenza di tutela dell’integrità psicofisica dell’individuo disturbato, e dello stato dei luoghi complessivamente inteso, includendo in esso anche il tempo del disturbo.

La norma si limita a stabilire che, per la sua applicazione, si deve considerare unicamente la posizione del disturbato, senza considerazione per quella del disturbatore, posto che nulla può giustificare la lesione o messa in pericolo di quel bene costituzionale rappresentato dalla salute dell’individuo. Che – si badi – non è il solo residente, ma qualsiasi soggetto si trovi a soggiornare a qualsiasi titolo nella zona disturbata.

Tale clausola generale è stata “riempita” secondo una consolidata giurisprudenza ormai quarantennale, dal criterio comparativo differenziale dei +3 dB(A). In chiaro – pur se la precisazione appare forse superflua alla platea dei lettori di questo sito – si tratta di misurare la rumorosità ambientale senza e prima dell’immissione disturbante, e dopo detta immissione, valutando se fra i due valori sussista la differenza di +3 dB(A), che corrisponde in termini acustico-logaritmici al raddoppio della pressione acustica. Di conseguenza: intollerabile è quell’immissione che raddoppia la pressione sonora esistente in sua assenza, con riferimento al disturbato. È chiaro che – sotto questo angolo visuale – non esiste un valore limite di riferimento: la rumorosità ambientale priva dell’immissione è quella che è propria di quello specifico luogo e deve essere accertata caso per caso. Poi si verifica l’aumento della pressione sonora determinato dall’immissione.

Nella realtà le cose non sono così semplici, perché l’art. 844 c.c. prescrive un secondo criterio normativo inderogabile: l’immissione deve superare la normale tollerabilità. Il che significa che il rumore di fondo (quello privo dell’immissione disturbante) deve essere accertato in condizioni di normalità, e quindi espungendo dalla sua rilevazione tutti quei fenomeni accidentali ed estemporanei che si possono manifestare durante il rilevamento. Ma non intendo addentrarmi in questa problematica che porterebbe fuori dal caso in commento. Qui mi limito a sottolineare – seguendo una ormai consolidatissima giurisprudenza – un dato solo apparentemente banale: nel nostro caso +20 dB(A) è un valore chiaramente superiore a +3 dB(A), sicché il primo include il secondo. Ciò significa sul piano giuridico che, se vero è che l’immissione disturbante nel nostro caso, era rappresentata dal primo valore, necessariamente essa includeva anche il secondo. Il che spiega il principio di diritto, ormai fermo tanto da costituire diritto vivente, per cui il superamento ex art. 2043 c.c. dei limiti massimi di immissione, stabiliti dalla normativa pubblicistica, configura necessariamente ed automaticamente anche una intollerabile immissione ex art. 844 c.c. Ma non vale il viceversa: il rispetto dei limiti pubblicistici non per ciò rende tollerabile l’immissione per la ragione che si dirà. Tutto questo discorso vale a criticare il rigetto del tribunale torinese della domanda proposta da alcuni degli attori anche proprietari di unità immobiliari nella zona considerata.

Sotto un diverso punto di vista, gli elementi richiesti dalla fattispecie di cui all’art. 844 c.c. sussistevano tutti. Il rumore si originava da un fondo di proprietà comunale, cioè il sedime stradale (indifferente essendo che si tratti di via o piazza o rotonda od altro) incluso nel patrimonio demaniale del Comune, del quale lo stesso ha la piena e totale disponibilità; il disturbo avveniva nel fondo del proprietario disturbato, cioè la sua unità abitativa; il pregiudizio incideva sul disturbato ed in ispecie sulla sua vita di relazione e riposo, quindi non si comprende per quale ragione la domanda sia stata rigettata. Né si potrebbe dire che l’uso di quel sedime fosse conforme a legge, perché, seppure lo fosse stato (e non lo era nel nostro caso), qui si trattava non di colpa ma di rapporti reali, che esistono oggettivamente a prescindere dalla colpa.

Spostando per un momento il discorso e per comprendere meglio, quando si controverte di un confine, ad esempio, fra fondi non si sta di certo ad indagare se quello rinvenibile sul terreno sia in quella specifica posizione per l’azione colposa di taluno: il giudice, semplicemente, provvede alla rettifica del confine su domanda dell’interessato per il solo fatto che esso – ipoteticamente – non è sul terreno conforme ai titoli di proprietà. Lo stesso principio vale nei confronti dell’art. 844 c.c.: spetta al proprietario del fondo disturbante provvedere a che l’attività, pur se legittimamente su di esso svolta, non generi immissioni acustiche che superino la normale tollerabilità. Se non si attiva con risultati efficaci, subirà gli effetti della riconosciuta intollerabilità dell’immissione.

Questo principio vale sia in ipotesi di compresenza di più esercizi commerciali come nel nostro caso, sia di sola presenza di assembramenti vocianti e schiamazzanti, abituali sul luogo, e disturbanti la serenità dei residenti. Perché – occorre esser chiari in proposito – il Comune ha l’obbligo di prevenire qualunque causa generatrice di immissioni intollerabili, così ad es. prevenendo con idonee limitazioni o sciogliendo tali assembramenti, ciò che è sempre estremamente riottoso a fare, per l’ovvia ricaduta in termini di consenso elettorale. Occorre sia chiaro, infatti, che l’ente pubblico, quale che esso sia, risponde dei danni arrecati al privato, o colposamente ex art. 2043 c.c., od oggettivamente in via reale ex art. 844 c.c..

Sul punto ormai v’è una marea giurisprudenziale insormontabile, nella quale la fanno da padroni i Comuni, i più inclini alla cassa che alla casa, oltre a società pubbliche od enti pubblici. Né ha alcun pregio l’usuale, stucchevole difesa del rispetto – nel nostro caso peraltro violato – dei limiti pubblicistici di inquinamento acustico sopra rammentati, quasiché il rispetto di quei limiti legittimasse l’ente pubblico a recare disturbo ai residenti. Perché da circa quarant’anni la Suprema Corte ripete che quei limiti valgono solo per l’attività amministrativa fra l’ente pubblico ed il singolo privato, che col primo entra in rapporto (es. quale titolare di una licenza commerciale, fruitore dell’area pubblica), ma sono del tutto estranei e quindi inapplicabili al soggetto terzo rispetto a quel rapporto, quale è il residente che è pregiudicato dal rumore per il solo fatto di risiedere in quel luogo. Il che significa che, seppure l’inquinamento ambientale rispetta i limiti amministrativi, non per questo è legittimo nei confronti del terzo, se l’immissione da esso generata superi la normale tollerabilità. E così seppure il giudice accerti il rispetto di quei limiti pubblicistici, è comunque tenuto – a fronte della domanda corrispondente – a verificare che quell’immissione non sia intollerabile. In quest’ultimo caso, dettando anche le modalità di prevenzione dell’immissione intollerabile. Nell’ipotesi limite, anche vietando l’accesso a soggetti diversi dai residenti sull’area considerata.

A questo punto scatta puntualmente l’usuale ritrosia del giudice italiano ad intervenire per imporre un facere all’ente pubblico verso il quale nutre un timore reverenziale pur quando mal riposto, per cui con gli argomenti più vari tenta di evitarlo. Compreso, ma non giustificato, tale atteggiamento, si deve comunque osservare che il giudice ben può far leva sul risarcimento del danno per prevenire indirettamente il disturbo, e così, ad esempio può stabilire una somma a titolo di risarcimento ogni qualvolta l’immissione superi un dato valore da lui stesso stabilito in sentenza. In tal modo l’ente pubblico è incentivato a prevenire il disturbo per risparmiare sul debito, ed il disturbato è agevolato nella prova del disturbo dal momento che è sufficiente dimostri quel superamento. Si può aggiungere alla panoplia dei provvedimenti giurisprudenziali, anche l’astreinte di cui all’art. 614-bis c.p.c., e cioè la comminatoria di una penale a carico del disturbante sinché questi non abbia provveduto a conformare l’immissione ai limiti di tollerabilità. Ma ancora una volta in proposito – come dimostra la sentenza in commento – il giudice è atavicamente restio all’uso di tale istituto, perché esso incide sulla concreta esecuzione della decisione, materia di cui il giudice della cognizione è portato a disinteressarsi, ma del tutto a torto. Qui basta ricordare che la presenza di una domanda specifica in proposito, come avevano formulato i 29 attori e segnatamente i residenti-proprietari, impone al giudice di pronunciare per accogliere o rigettare. Non può semplicemente tacere in argomento, com’è accaduto nel caso, pena un’omissione di pronuncia.

Mi fermo a questo punto nel commento della sentenza torinese, senza inoltrarmi su sentieri più erti ma che potrebbero essere confusivi per il lettore, concludendo con un avvertimento: la decina di lettori che mi ha seguito sin qui non credano, dopo aver letto e compreso il contenuto di questo intervento, che mi auguro non risulti eccessivamente arzigogolato, di sapere tutto sulla responsabilità dell’ente pubblico in materia di immissioni acustiche. Ciò sarebbe improvvido e foriero di catastrofi. Sarei felice se ritenessero di aver intravisto qualche luce nella complessità di questa materia, così da trarne guida per i propri comportamenti.

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