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Ultimo aggiornamento: 06 giugno 2020

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Potere del Comune di vietare attività rumorose anche se rispettano i limiti normativi

Giugno 2020 - A cura di Avv. Santo Durelli (sito web: www.avvocatodurelli.it)

 

La sentenza n 2684 del 17.4.2020 emessa dal Consiglio di Stato, pur non costituendo un novum nel panorama giuridico, è molto interessante in quanto riprende e fa applicazione di un principio tanto importante quanto probabilmente da molti dimenticato stante che le (poche) sentenze che lo avevano enunciato risalgono ormai ad una decina e più di anni or sono. Si tratta più precisamente della sentenza dello stesso Consiglio n. 1265/2011 e ancor prima Cassazione civile n. 18953/2006, di cui pure si darà conto.

La normativa pubblicistica per la tutela dall’inquinamento acustico, ossia la legge quadro n. 447/1995 e suoi decreti attuativi, in primis il DPCM 14.11.1997, prevedono criteri di misurazione e valori limite delle emissioni ed immissioni rigidi e prefissati. Si è quindi portati a pensare che se un determinata immissione non superi quei limiti normativi sia sempre consentita sotto il profilo acustico. Proprio su questo aspetto si è pronunciata la sentenza in commento statuendo invece che un regolamento comunale, al fine di preservare la quiete pubblica e dei singoli cittadini, legittimamente può prevedere il divieto di attività indipendentemente dal fatto che la rumorosità generata rispetti o meno i limiti previsti dalle richiamate norme acustiche.

 

Analizziamo la sentenza

In estrema e semplicistica sintesi, la fattispecie:

- una ditta di autolavaggio riceveva diffida dal Comune di rispettare la disposizione del regolamento comunale là ove contempla l’inibizione nella fascia oraria notturna e nei festivi di ogni qualsivoglia attività di lavaggio (orari nei quali l’attività della ditta era invece in funzione);

- la ditta impugnava la diffida davanti al TAR sostenendo che la L. 447/95 non prevedrebbe la possibilità per i Comuni di regolare l’esercizio di attività che impieghino sorgenti sonore, ma solo quella di regolare l’emissione del rumore, sicché gli stessi potrebbero inibire l’esercizio dell’attività solo se la stessa superi i limiti di rumorosità imposti dalla legge stessa;

- inoltre, ha sostenuto la ditta, presupposto di legittimità della diffida, secondo il regolamento comunale, era che dai controlli risultasse che i livelli delle emissioni e delle immissioni sonore non fossero conformi alle prescrizioni normative od a quelle amministrative in vigore, mentre, nel caso di specie, il Comune aveva accertato il rispetto di detti livelli.

Il TAR respingeva il ricorso e, su appello della ditta, il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del TAR, così argomentando “...la tutela del bene giuridico protetto dalla L .447/ 1995, la quale mira alla salvaguardia di un complesso di valori (cfr. art. 2, co. 1, lett. a) rispetto al fenomeno dell’inquinamento acustico, coesiste con la tutela del diverso bene giuridico che è costituito dalla pubblica tranquillità, trattandosi di beni presidiati da norme con obiettivi e struttura diversi (...) la legislazione sull’inquinamento acustico non impedisce ai comuni di adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, la quale, nel rispetto dei vincoli derivanti dalla L. n. 447 del 1995, prenda in considerazione, non già il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità (considerato, per presunzione iuris et de iure, come generativo di un fenomeno di inquinamento acustico, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva lesione del complesso di valori indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a, della Legge) ma i concreti effetti negativi provocati dall’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata;

prosegue la motivazione: (...) pur non potendo gli enti locali introdurre, nell’esercizio della propria potestà amministrativa limiti alle immissioni sonore diversi e comunque inferiori a quelli previsti dalla l. n. 447 del 1995, i Comuni possono dettare disposizioni particolari, anche presidiate da sanzione amministrativa, che vietino non (soltanto ndr) le immissioni sonore che superino una soglia acustica prestabilita, ma tutte quelle che comunque nuocciano alla quiete e alla tranquillità pubblica o privata, quale che sia il loro livello acustico“.

 

Il precedente del Consiglio di Stato, sentenza n. 1265/2011

La sentenza 2684/20 richiama una precedente pronuncia della stessa Corte di cui, per completezza di trattazione della questione in diritto, è bene riassumere i passi salienti. Una società operante nel settore industriale impugnava davanti al Tar il Regolamento comunale di Polizia Urbana nella parte in cui era stabilito che "Ai fini della salvaguardia della salute pubblica le attività ubicate sul territorio comunale posto ad est della linea ferroviaria (...) anche quando rientrino nei limiti di legge (...) potranno essere esercitate esclusivamente dalle ore 06.00 alle ore 22.00".

Il TAR aveva accolto il ricorso della società con la motivazione, tra le altre, che in materia di inquinamento acustico il Comune ha una competenza solo attuativa della L. 447/95, non potendo quindi vietare in alcune fasce orarie attività rientranti nei limiti di legge. Ma, su appello del Comune, il Consiglio di Stato con la citata sentenza 1265/2011 ha ribaltato la decisione enunciando sia il principio ripreso dalla sentenza 2684/20 che i seguenti:

- la censura di irragionevolezza e illogicità della sentenza per aver vietato una attività che non produce rumore (disturbante, ndr), in quanto rispettosa dei limiti, è stata rigettata motivando che la tesi si fonda su una erronea equivalenza tra rispetto dei limiti e assenza di rumore, mentre, nella fattispecie il potere (regolamentare) esercitato è diretto proprio a mitigare le emissioni che, pur rientrando nei limiti, possano arrecare disturbo alla quiete;

- in relazione alla censura di illegittimità proposta in quanto il Comune in precedenza aveva diffidato l’impresa a rispettare i limiti normativi e tuttavia, una volta eseguiti gli interventi mitigatori, aveva introdotto il Regolamento in forza del quale il Comune aveva vietato del tutto l’attività, il Consiglio di Stato ha osservato che l'adozione di atti diretti a riportare le emissioni acustiche nei limiti normativi, da un lato, attiene ad un profilo che non ammette deroghe, dall’altro, che ciò non preclude al Comune la successiva valutazione, anche sulla base dei casi concreti esaminati, di intervenire con norme regolamentari di portata generale, dirette a garantire una maggiore salvaguardia della quiete pubblica nella fascia notturna. L'aver superato i limiti ed essersi poi adeguato agli stessi non garantisce posizione di intangibilità, rispetto all'esercizio di un potere, che rientra nelle competenze dei Comuni.

 

La sentenza della Cassazione civile n.18953/2006

Entrambe le sentenze del Consiglio di stato hanno fatto richiamo di un principio enucleato dalla sentenza Cass. n.18953/2006, secondo cui, qualora un Comune, con apposita norma regolamentare, abbia adottato una specifica disciplina dei rumori nel suo territorio, protesa a salvaguardare la tranquillità pubblica e/o privata, non è necessario al fine di accertare la violazione della medesima norma verificare l'osservanza dei limiti massimi posti dalla normativa acustica attraverso l'utilizzo di appositi apparecchi di precisione, bensì è sufficiente accertare se il rumore generato sia idoneo a determinare l'evento di disturbo della tranquillità avuto di mira dalla norma del regolamento di polizia urbana.

La fattispecie esaminata dalla Cassazione muoveva dall’opposizione di un gestore di locale avverso l'ingiunzione del Comune di pagamento di sanzione amministrativa per la violazione del Regolamento di Polizia urbana avendo tenuto in funzione diffusori acustici a volume tale che la musica risultava udibile ad una distanza di metri settanta, recando così disturbo e molestia alle vicine abitazioni. Il gestore a sostegno dell'opposizione assumeva, tra l’altro, che l'accertamento era stato effettuato senza il necessario ausilio di idonei strumenti tecnici di misurazione del rumore. Avverso la sentenza del Giudice di Pace che aveva rigettato l'opposizione, il gestore ricorreva in Cassazione.

La Corte ha respinto (anche su questo punto) il ricorso, motivando che allorquando si tratta di valutare se vi sia o meno concreto disturbo della quiete non è affatto necessario compiere le rilevazioni con gli appositi fonometri, da utilizzarsi invece (e soltanto) per l’accertamento del supero dei limiti della normativa acustica. La Corte ha conseguentemente ritenuta legittima la verifica circa la sussistenza dell'illecito sulla base degli accertamenti della Polizia municipale, la quale aveva evidenziato come le casse acustiche diffondessero musica a volume tale da poter essere udita dalle vicine abitazioni residenziali, ubicate ad una distanza inferiore rispetto a quella dove era stata udita nel corso dell'accertamento.

 

Considerazioni finali

La sentenza del Consiglio di Stato, unitamente alle precedenti pronunce richiamate, sono degne di apprezzamento in quanto, da un lato, ampliano il potere normativo del Comune (rendendolo più responsabile, a fronte di un diffuso disinteresse odierno), dall’altro perché spostano l'accento - anche sul piano dell'inquinamento - dal puro e semplice dato oggettivo delle misurazioni agli effetti dell'inquinamento stesso, cioè al concreto disturbo delle persone.

Certamente la valutazione e l’accertamento di questi effetti, senza far ricorso ai fonometri e sfuggendo in tal modo all’applicazione a tal fine di rigidi e prefissati limiti, implica un giudizio non basato su dati meramente tecnici, ma lascia spazio alla valutazione soggettiva e discrezionale. Ma in ciò non mi pare vi sia nulla di cui allarmarsi o da temere, stante la possibilità per la parte interessata di sottoporre sempre al vaglio dell’autorità giudiziaria gli elementi di fatto, le specificità del caso, i criteri seguiti e la determinazione assunta dall’organo amministrativo. Situazione del resto affatto non dissimile da quella che si verifica in campo penale nella applicazione e nel rapporto tra l’art. 10 L. 447/95 e la norma penale di cui all’art. 659 c.p.; ovvero ancora nel rapporto tra la tutela (dal rumore) pubblicistica e quella privatistica ex art. 844 c.c.

Mi pare di poter concludere che il principio enucleato dalle sentenze in argomento costituisca uno strumento ulteriore di tutela del disturbato. Se, da una attività derivi rumorosità disturbante ma questa rispetti i limiti della normativa pubblicistica ex L. 447/95 e DPCM 14.11.97, il disturbato potrà verificare se nel Regolamento del proprio Comune vi sia norma che detti disposizioni particolari che vietino immissioni/emissioni che comunque nuocciano alla quiete e alla tranquillità pubblica o privata. Nel caso sussista, potrà chiedere al Comune di farne applicazione e reagire in caso di sua inerzia. Se non sussista potrà, da solo o ancor meglio costituendo comitati o gruppi di pressione, fare opera di sensibilizzazione verso le autorità comunali affinché emanino una norma regolamentare di tal fatta.

Infine, ovviamente, potrà sempre fare ricorso alla tutela privatistica ex art. 844 c.c. che, come noto, segue, nella valutazione della normale tollerabilità di una immissione, il criterio comparativo, più stringente e tutelante rispetto a quelli seguiti dalla Pubblica amministrazione in base alle norme acustiche ex L. 447/1995 e successivi decreti attuativi.

 

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